La domanda sorge spontanea e squarcia il pesante velo di ipocrisia: a cosa serve una giornata internazionale dei rifugiati di fronte a ciò che quotidianamente accade sui confini di mezzo mondo? Di fronte alla più grande catastrofe umanitaria che si sta consumando nel Mediterraneo; di fronte all’avanzata delle forze razziste e xenofobe in molti stati europei, di fronte all’insensibilità istituzionale dei Governi e dell’Europa? È anche questa, dunque, una data destinata a diventare il giorno (unico) di una ricorrenza vuota e imbalsamata per addetti ai lavori e per persone ‘buone’? Così come lo sono diventate altre ricorrenze importanti… Con l’aggravante che, questa ricorrenza in particolare, di fronte alla realtà che ci circonda, di fronte al dramma che si consuma sotto i nostri occhi, sarebbe troppo anche per chi, come noi, ogni giorno con azioni concrete si batte contro tutto ciò.

 

Noi soli sappiamo, infatti, quanto ci siamo battuti perché trovassero dignità e ricordo gli oltre 50 milioni di uomini, donne e bambini costretti a fuggire dalle proprie case, dalle proprie terre e dagli affetti più cari in cerca di una nuova vita.

 

Sappiamo quanto sia importante che le istituzioni riconoscano, anche formalmente, un fenomeno destinato ad accompagnarci ancora per lungo tempo. Ci battiamo anche su questo piano più formale perché vengano ricordate le vittime del nostro egoismo e delle nostre paure.

L’ultima per la quale ci siamo impegnati è stata quella del 3 ottobre. Ma come dare senso a questa data, rifuggendo dal rischio retorico? Certamente con l’impegno di chi crede che un «mondo diverso è davvero possibile»; che non possono esistere regole diverse a seconda del paese di nascita e che deve essere un diritto intoccabile per ciascun uomo o donna su questa terra costruirsi un futuro migliore.

Continuare a battersi per tutto ciò e rifuggire dalla cosiddetta “zona grigia” fatta di indifferenza che si trasforma in odio. E proprio qui sono centrali, in una visione complessiva, i nostri circoli, i nostri luoghi d’incontro sparsi in tutto il Paese. Lo sono perché danno agibilità a pensieri, azioni e sensibilità che oggi sono minoranza; ma lo sono soprattutto perché quegli stessi luoghi sono l’occasione per conoscere, incontrare chi ha deciso di compiere la traversata del Mediterraneo o la lunga marcia attraverso i Balcani. E lo sono ancora di più perché anche i nostri soci corrono il rischio dell’indifferenza quando non dell’odio. Per questi motivi noi, l’Arci, il 20 giugno vorremmo fosse soprattutto la conferma di un impegno forte nell’accoglienza, attraverso una militanza che osiamo definire politica, perché attraverso ciò che facciamo concretamente vogliamo modificare la realtà. Cominciando dal micro per arrivare al macro. Agire localmente, pensare globalmente avremmo detto qualche anno fa. Saremo in quella giornata, dunque, al Brennero, a Ventimiglia e in tutti i posti di frontiera con i nostri ombrelli a chiedere ‘protezione’. Ma dovremmo essere anche nei nostri circoli, nei luoghi importanti delle nostre comunità a promuovere conoscenza e cultura, a promuovere incontri con questi uomini e donne che ‘fanno paura’ a tanti. Il 20 giugno può essere la giornata di una grande mobilitazione territoriale per l’Arci in cui lanciare e promuovere incontri, pranzi, cene, nelle famiglie come nei circoli, dove incontrare e conoscere chi è arrivato nel nostro Paese e perché. Facendocelo raccontare da loro, attraverso i loro sguardi, le loro parole e i segni che in tanti portano sulla loro pelle. Facciamolo, cara Arci. Favoriamo il più possibile l’incontro tra ‘noi e loro’. Sarebbe una vera e autentica rivoluzione di questi tempi.