Grazie a “Rete a sinistra”, per aver studiato e gettato il sasso nello stagno di una delle crisi strutturali più evidenti degli ultimi vent’anni. Una crisi, come riportato bene da chi mi ha preceduto, di sistema che, intreccia più aspetti e che mette al centro, più che la crisi economico/sociale la crisi della democrazia e della rappresentanza. Una crisi che, fino ad oggi, ci ha impedito di ripensare la città come comunità, lasciando che la “natura”, come è stato ben evidenziato negli interventi precedenti, facesse il suo corso. Non c’è una ricetta e non esiste un problema dunque; ma esiste una necessità, quella si, di conoscere la città, nelle sue varie forme e nelle sue articolazioni. Credo sia questo il punto e credo ancora che una necessità – urgente – di questa natura non possa essere solo un problema di chi amministra. Troppo comodo. Come possiamo pensare di vivere ignorando ciò che accade ad Albaro piuttosto che a Molassana, abitando a Rivarolo? Ed è qui che la città perde la partita della comunità diffusa e solidale; ed è su questo che noi abbiamo in questi ultimi vent’anni costruito la città dei “mini microcosmi”. Vedasi centro storico e movida, vedasi Cep e Pianacci, come Nervi e l’auspicata, scellerata richiesta di autonomia. In forme e in modi diversi la nostra città non è più capace di rappresentare una complessità ma solo ed esclusivamente dei microcosmi, spesso inconciliabili tra loro. Tanto che la Moschea diventa una servitù tanto quanto l’acciaieria e l’importante non è farla o non farla (con buona pace delle ideologie). Ma “non farla qui, sotto casa mia”. Da qui il tema – oggi tornato al centro delle riflessioni grazie a questo dibattito ospitato da Repubblica (segno dei tempi anche questo dato che una volta queste discussioni avvenivano nelle sedi dei partiti) – sulle periferie. Termine che dice tutto e niente, che non è più possibile definire geograficamente ma solo, se va bene, socialmente. Il grande Sanguineti avrebbe detto per “classi”, con buona pace dei benpensanti. Ma nonostante ciò anche qui qualcosa ci unisce: al termine periferie colleghiamo quasi in automatico il termine “abbandono”. E, se tanto mi da tanto, occorre prendere sul serio il fatto che una larga fetta di popolazione di questa città è o si sente abbandonata. Per motivi diversi ma abbandonata. Un tipo di abbandono che rinsechisce via via quelle poche forme di cittadinanza attiva che resiste ma che, vive, sempre più la sindrome del mini microcosmo. Sono cresciuto e ho mosso le mie uniche esperienze amministrative nel periodo della “città policentrica”. Il periodo è quello dal 1997 al 2007 con una città che prende coscienza che occorre ridisegnare e ripensare la città. E il periodo della riforma delle circoscrizioni, da luoghi della partecipazione a luoghi di governo dei nuovi, futuri, Municipi. L’idea di città è accompagnata da un solo e unico aggettivo: decentrata. Più vicina al territorio e ai cittadini. E’ un periodo che ricordo come positivo. E’ un momento in cui il “decentramento” contamina la città nelle sue forme tanto che, solo per fare un piccolo esempio, organizzazioni come l’Arci teorizzano e praticano l’uscita delle attività e dei servizi legati all’immigrazione fuori dal centro storico cittadino. Nascono infatti attività e servizi nella zona del Campasso, in Valpolcevera in Valbisagno, anticipando di qualche anno l’insediamento di moltissimi nuovi cittadini che avverrà poi dal 2002 in poi. Quel periodo si chiude, nostro malgrado, nel 2007, con l’annunciato e mai realizzato decentramento dei servizi sociali dal Comune ai Municipi. E un periodo in cui cambia, e in modo significativo, il panorama dei nuovi amministratori di Municipio. Non più solo volontariato di chi poteva permetterselo ma i partiti, sono costretti ad investire su figure preparate e capaci di rappresentare quel periodo di svolta. Si affacciano per la prima volta molti ragazzi e ragazze nei Consigli delle nuove Circoscrizioni. Poi il nulla. Quel percorso si ferma, viene meno l’idea di città decentrata, aperta, curata e solidale e soprattutto scompare l’investimento politico dell’intera città verso quel percorso. Anzi, si entra con irruenza nell’era del taglio della rappresentanza, dell’attacco frontale della macchina pubblica, della cultura diffusa che “bisogna tagliere i costi della politica”, includendo in questa visione tutto, spesso, verrebbe da dire, nella logica dei mariti che hanno voglia di fare dei dispetti alla moglie. Ma tant’è, quello è “quello che pensano i cittadini” ci viene detto dai partiti e dai loro rappresentanti. Tutti oserei dire. Tanto che oggi è con questo brodo di cultura con cui facciamo i conti. La stessa che ci ha portato a vivere le delegazioni come i posti dove andare a dormire la sera, vivendo il resto della giornata in centro o comunque altrove; la stessa che non ci fa accorgere dei bisogni del nostro dirimpettaio di pianerottolo, tanto è la fretta di chiudersi in casa. E di questo siamo attori protagonisti noi cittadini, non altri. Inutile girarci intorno; il nostro apporto, da cittadini, è fondamentale se non unico per ricostruire un tessuto di comunità laddove si è perso. E’ fondamentale pure per determinare le priorità della politica a dirla tutta. E diventa, dunque, inutile lamentarsi e mugugnare contro paure, immigrazione e insicurezza di fronte a questo scenario. Perchè, onestamente, è davvero un problema di sicurezza e d’immigrazione tutto ciò? E’ colpa di chi arriva se intere vie non sono illuminate, nessuno gira di sera, non ci sono posti dove ritrovarsi, senza spendere, eccezion fatta per i circoli e le parrocchie? E’ colpa degli immigrati se ci si ritrova al supermercato o al centro commerciale a prescindere dal fatto che si debba comprare qualcosa? E’ colpa degli immigrati se tra il 2007 e il 2013 il fondo per le politiche sociali del Governo è progressivamente passato da quasi 2 miliardi di euro a poco più di 250 milioni? Soldi in meno per asili nido, servizi, trasporto pubblico, enti locali, servizi scolastici, educativi, sociali e di assistenza e così via, nel più totale disinteresse delle città? E’tempo di proposte. E in questo senso riprendere l’idea della città decentrata, coerente con la città metropolitana, pare una cosa non solo utile ma urgente. Senza, però, correre il rischio che questo percorso appaia esclusivo e per pochi ma, al contrario, sia inclusivo, aperto e partecipato. Oggi, non possono esserci politiche pubbliche che non valorizzino il protagonismo attivo dei cittadini. D’altro canto non può esserci protagonismo senza il rifiuto di discussioni inutili, senza il rifiuto della inutile propaganda che ci racconta quello che vogliamo farci raccontare e soprattutto racconta una città che non c’è. Nessuna proposta politica per la città che non abbia al centro un’idea di città policentrica e decentrata può aspirare seriamente a governarla. Occorre dunque più di coraggio. Le basi oggi ci sono, servono idee e volontà.