care compagne e cari compagni,
a prescindere dal farle o non farle, il mese di agosto ci catapulta nel periodo delle ferie.
Credo faccia bene a tutti una pausa (a me sicuramente), anche breve, dalla routine del quotidiano che ci risucchia e avvolge non sempre positivamente.
Le ferie sono anche il tempo delle letture più attente, approfondite; sono il tempo delle riflessioni anche di lungo periodo.
E immancabilmente non mancano i richiami “all’autunno caldo che ci attende”.
Devo ammettere che ho sempre diffidato degli annunci catastrofici rispetto alla prospettiva di “autunni caldi se non caldissimi”.
Come se negli ultimi vent’anni almeno inverni, estati e primavere siano state, invece, fresche e serene (non riferendosi certo alla scienza della meteorologia).
Ma non posso nascondere una certa apprensione per ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi.
Non tanto e non solo per una o più questioni specifiche; certo il pensiero corre verso alcune di queste (le elezioni amministrative del prossimo maggio, la situazione della nostra associazione nazionale, la campagna referendaria e molto altro) ma, piuttosto, vivo con qualche timore e con grande preoccupazione un ulteriore peggioramento del clima sociale e culturale del nostro Paese. Non credo sia immaginabile un ulteriore imbarbarimento delle relazioni umane e dunque un acuirsi delle tensioni sul piano umano e civile.
Cosa può succedere ancora (e di peggio) dopo le ondate di odio e razzismo che ormai attraversano quotidianamente le persone, tutte, in modo così massiccio.
Un odio che non permette la ragione, che offusca e annebbia qualunque ipotesi di buon senso; un odio che è voglia di urlare, sbraitare, offendere, insultare per il gusto di farlo.
Un’odio che ha sempre più bisogno del colpevole di turno, sia esso il migrante, il collega, la moglie o il vicino di casa.
Una condizione che ha determinato la più significativa percentuale di vigliacchi presenti in ogni angolo del paese; una vigliaccheria diventata modo di vivere: forti con i deboli e deboli con i forti. Verrebbe da dire che tutto ciò ha a che fare con la precarietà che ci siamo costruiti; una instabilità che non riguarda più solo il lavoro ma, soprattutto, le nostre esistenze e le nostre relazioni.
Lo scrivo senza troppa convinzione in realtà perché sento correre il rischio di giustificare troppo superficialmente, atti e parole, che in realtà devono essere solo condannati e combattuti.
Io non penso che il razzismo, il femminicidio, l’odio indiscriminato che agita i nostri giorni siano cose assestanti, da affrontare a seconda del momento e della convenienza, in tempi e modi diversi. C’è un filo rosso, una matrice ideologica ben precisa che lega tutto ciò, e il collante è un “sentimento madre”: l’egoismo determinato talvolta dalla paura.
Paura di tutto ciò che non si comprende e che ci si rifiuta di comprendere.
Paura di cedere rispetto alle proprie credenze e convinzioni, costruite, magari, in mesi e mesi di frequentazioni di chat o reti.
Come uscire, dunque, dalle secche della più devastante crisi culturale dopo “l’uomo delle caverne”? Come liberarsi da questo vertiginoso logoramento e che ci porta sempre più a mettere il merito delle questioni in secondo, se non in terzo piano e, al contrario, privilegiare la denigrazione personale e l’insulto come l’unica fote dialettica?
A me pare questa la vera questione e la principale priorità per tutte e tutti noi.
Praticare una diversità radicale nel metodo e quindi in favore del merito delle questioni credo possa essere la vera rivoluzione di questi tempi.
Una pratica radicale che ha bisogno di “palestre di allenamento” di luoghi in cui esercitarsi, collettivi, dove riprendere le fila della propria esistenza e di quelle delle nostre comunità.
Dove ritrovare un progetto collettivo di cui sentirsi parte e dare un senso alle cose che facciamo più che a quello che diciamo.
Si, ridare senso al collettivo può essere rivoluzionario diq uesti tempi.
Siamo nell’epoca dei social, dell’individualità, dove, per contro, la dimensione associativa e collettiva appare più come un disvalore che altro.
In tutto ciò non posso pensare al ruolo di un’associazione come l’Arci. E alle tantissime cose che potrebbe mettere in campo e ai luoghi che potrebbe rivalorizzare.
Un’Arci che non è mai stata l’isola felice ma che, al contrario ha trovato la sua forza, proprio nelle contraddizioni al suo interno, in questi anni.
Contraddizioni che ci hanno permesso di attraversare questa fase quasi fosse un miracolo.
Esserci oggi, come soggetto collettivo, è già di per se un successo ma a noi non deve e non può bastare come ci siamo detti nel seminario regionale di qualche giorno fa con i compagni della presidenza regionale, con i presidenti dei comitati e con la nostra delegazione in Consiglio Nazionale.
Pensiamoci insieme e proviamo ad invertire la rotta.
Buone vacanze compagne e compagni.