Giuliano Montaldo o della classicità naturale

 

Svolgere una funzione didattica, narrando vicende di impegno civile senza però perdere mai di vista le necessità dello spettacolo: su questo crinale, in una ricerca perenne dell’equilibrio fra le esigenze dello sforzo critico e del successo popolare, si è tenuta la lunga carriera di Giuliano Montaldo, scomparso nei giorni scorsi a un’età venerabile, ma non sufficiente a rendere meno acuto il dolore del distacco; perché il congedo di chi è molto anziano e siamo ormai abituati a considerare parte inevitabile del nostro paesaggio umano non spreme meno lacrime di una morte prematura. Sono, tuttavia, lacrime diverse: quello, cioè, di chi sente di avere un riferimento in meno nella navigazione dell’esistenza.

Montaldo era adatto anche fisicamente, con il suo aspetto imponente, da patriarca insieme bonario e autorevole, con la bella voce profonda, con lo sguardo limpido e il sorriso ironico, a impersonare un sereno e affidabile punto di riferimento; e tale è rimasto per tutto l’arco dei suoi decenni di lavoro.

Ottimo attore, solido e comunicativo, capace di tante più sfumature quanto meno l’abilità era esibita, diede prova delle sue qualità in alcuni ruoli interessanti ruoli negli anni Cinquanta, in particolare il commissario politico Lorenzo nell’epopea antiretorica sulla Resistenza Achtung! Banditi! di Lizzani o, stesso regista ma figura assai diversa, il pizzicagnolo Alfredo nel pratoliniano Cronache di poveri amanti, ov’era marito di Antonella Lualdi, altra recente dipartita; e, dopo molti anni di pausa in questo campo, alla recitazione sarebbe tornato da fine secolo in poi, centrando caratterizzazioni felicissime come il regista nel Caimano di Moretti, evidentemente autoironico, o il divertente e commovente vecchietto svanito in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, che gli valse meritati riconoscimenti.

Ma certo è soprattutto dietro la macchina da presa che Montaldo ha lasciato il segno, con tanti film non sempre forse del tutto riusciti, ma inevitabilmente segnati da due grandi virtù: il gusto per il racconto e la vivissima vocazione civile, intrecciati l’uno all’altro in maniera che diremmo necessaria. Oggi, in una fase storica in cui certi argomenti sono oggetto di distorsioni e banalizzazioni, la sua regia d’esordio, Tiro al piccione (1961), sui tormenti di un giovane aderente alle milizie di Salò, che matura la propria disillusione vivendo fin all’ultimo e dall’interno il fascismo peggiore, per poi decidere di consegnarsi ai partigiani, brilla forse ancora di più che al tempo della sua uscita in sala per l’onestà intellettuale e la capacità di far riflettere sulla diversità di piani fra la valutazione delle scelte personali e il giudizio storico su un’esperienza collettiva; e forma un dittico ideale con il successivo Gott mit uns (1970), sulla tragica vicenda di due disertori della Wermacht. Il film più riuscito tra i lavori dedicati da Montaldo alla guerra e alla Resistenza resta però forse L’Agnese va a morire (1976), toccante adattamento del romanzo di Renata Viganò, utile a ricordare come la Liberazione non sia stato affare esclusivamente settentrionale (e utile anche, oggi, a rispondere a una polemica assurda e piuttosto scellerata come quella di Pierfrancesco Favino sull’italianità di attori e personaggi, messa a tacere da qualunque inquadratura ove si ammiri la potente prova di una Ingrid Thulin in stato di grazia).

Accanto al filone resistenziale, nel percorso cinematografico di Montaldo va poi citato quello di denuncia del capitalismo selvaggio, da Una bella grinta del 1965 all’ Industriale del 2011, peraltro con protagonista proprio Favino: un dittico in cui il mondo del lavoro e quello dell’imprenditoria sono sezionati con intelligenza espressiva e sociale che restano per molti versi esemplari.

A nostro minoritario giudizio, meno riuscite sono invece pellicole pur comprensibilmente iconiche e con momenti intensi come Giordano Bruno (1973) e financo Sacco e Vanzetti (1971), ambedue troppo condizionate dall’istrionismo ingombrante di Volonté, cui pure c’è da essere grati per l’evidente passione personale; mentre andrebbe considerato con più attenzione, tra i titoli considerati minori, quel Gli intoccabili (1969) in cui Montaldo dirige, in America, John Cassavetes, Gena Rowlands e Peter Falk, in uno straordinario crocevia con il doppio binario dell’industria hollywoodiana e del cinema indipendente.

In ogni caso, le scelte del regista appaiono, da questi e altri film, coerenti e determinate, all’insegna di quella ricerca di una comunicazione a più livelli, popolare e spettacolare ma anche profonda, capace di scuotere le coscienze con mezzi solo in apparenza semplici, che consente di parlare di Montaldo come di un classico, per la limpidezza del linguaggio, la nitidezza dello sguardo, la forza delle idee.

Un classico che seppe dare ottima prova di sé anche in televisione (inutile insistere sul successo del Marco Polo, forse vero erede del didascalismo poetico di Rossellini, seppure in un’ottica diversa) o in teatro, specie nel campo della regia lirica, cui Montaldo diede numerosi contributi all’insegna di un tradizionalismo evidente ma non invadente: le sue messinscene apparivano pienamente rispettose delle didascalie dei libretti, ma giammai meramente illustrative o interessate soltanto alla zeffirelliana “bella immagine”. Chi scrive vide due volte, a distanza di molti anni, il suo allestimento di Turandot: la seconda occasione, al Carlo Felice nella stagione 2003-2004, fu in occasione della prima rappresentazione scenica del nuovo finale steso da Luciano Berio per l’incompiuta pucciniana, con la magnifica direzione di Bruno Bartoletti. Si pensava che riprendere una stagionata regia vecchio stile avrebbe potuto stridere con la novità musicale: e invece l’esito fu eccellente, perché una volta di più Montaldo aveva dato prova della sua capacità di parlare a ogni tipo di pubblico, convincendo per l’immediata leggibilità del racconto ma senza escludere vitalità e interesse teatrali.

Questa capacità di saper sempre trovare un rapporto naturale, financo familiare, col pubblico, senza forzature, camminando sul filo di lama sospeso fra rigore critico e comunicativa popolare, è stata la costante della carriera di Giuliano Montaldo, perfettamente riconoscibile anche nella sua attività politica, nella testimonianza di valori antifascisti, negli incontri sempre cordiali e illuminanti in occasione di manifestazioni e rassegne dove abbiamo imparato a conoscerlo per uomo sorridente, arguto, consapevole, nonché per il bellissimo legame umano e intellettuale con la moglie Vera, cui sarebbe non solo scortese ma proprio sbagliato negare almeno una citazione.

Mancherà, Giuliano Montaldo? Moltissimo. Pure, come tutti i classici, sarà possibile anche sentirlo ancora accanto, con una generosità postuma che è il segno – forse involontario ma incisivo – delle vere grandi figure che abbiamo, talvolta, la ventura di sfiorare.

 

Jacopo Marchisio – componente Consiglio Regionale di Arci Liguria