Pubblichiamo volentieri il report di Sara Viganò, volontaria del Servizio Civile presso Arci Genova, che ringraziamo. In coda all’articolo trovate anche il “Manifesto con alcune proposte concrete per rendere il carcere ‘più umano’ “, redatto a conclusione del seminario.
“Nell’attesa dell’inizio del seminario, mentre ancora nessuno si è accomodato e ci si appresta a porgere saluti a sguardi conosciuti o cari, non posso fare a meno di notare il via vai che coinvolge l’intero spazio adibito al convegno. Tra la confusione dei saluti e dei nuovi arrivi spiccano al mio sguardo i passi a tre delle persone ristrette che approfittano dell’attesa per passeggiare. Rifletto e penso a quanto la ristrettezza influenzi i gesti e i movimenti quotidiani. E di come, soprattutto in un giorno come quello di oggi che potrebbe rappresentare un momento di rottura rispetto ai ritmi costanti e ripetitivi dell’istituto, sia comunque affrontato con le consuetudini apprese. (S. V.)
Il seminario tenutosi presso la Casa di Reclusione di Padova “Due Palazzi” ha visto la partecipazione di numerose figure impegnate nella tutela e nella garanzia dei diritti dei detenuti, quali operatori sociali, volontari, operatori giuridici, politici, professori e professionisti legati al carcere e alla giustizia e di testimoni diretti in qualità di genitori detenuti e famigliari.
La premessa del seminario nazionale di studi è quella di configurare la sicurezza sia sociale sia del singolo, attraverso la fruibilità di ciò che di più caro e importante ognuno ha, ovvero i legami famigliari: solamente mantenendo saldi i legami tra le persone ristrette e la loro famiglia (genitori, coniugi e figli) potrà essere messo in atto il principio su cui si fonda l’Ordinamento Penitenziario del 1975, ovvero il principio di reinserimento sociale a fine pena.
Lo scopo del seminario era di avviare, attraverso la partecipazione attiva degli stessi soggetti, una proposta di legge relativa all’umanizzazione della reclusione e, nell’attesa di una sperata approvazione di tali riforme normative, avviare diverse proposte, ovvero azioni che ogni Istituto detentivo può mettere in atto con una semplice circolare dell’Amministrazione Penitenziaria.
La giornata prende avvio con l’intervento del Direttore del carcere di Padova, Salvatore Pirruccio il quale, una volta effettuati i saluti di inizio e i ringraziamenti, spiega come la tematica del giorno sia di grandissima importanza, non soltanto per i detenuti ma soprattutto per i famigliari.
L’avvio del seminario pone come incipit ciò che l’Ordinamento Penitenziario prevede “entro certi limiti” per il mantenimento delle relazioni affettive e di come, nonostante ciò, ci siano delle grandi differenze tra i diversi istituti di pena circa la gestione e la facilitazione delle stesse. Il Direttore spiega con estrema chiarezza come, oltre al detenuto, anche la famiglia subisca dei grossi traumi legati alla detenzione di un componente del nucleo. Il trauma dell’arresto, il mancato sostentamento economico, i trasferimenti in luoghi lontani rispetto la residenza famigliare, sono tutti fattori che influenzano il recepimento e le decisioni inerenti al mantenimento del rapporto tra il soggetto detenuto e i suoi affetti. Da qui, Salvatore Pirruccio racconta come il carcere di Padova si impegni affinché possa migliorare la condizione di pena in cui è immesso il detenuto e la sua famiglia, ricordando come ciò che viene previsto dall’Ordinamento Penitenziario sia il minino di partenza, dal quale però si può crescere ed ampliarne le previsioni.
Padova, rispetto alla maggior parte delle carceri italiane risulta essere “all’avanguardia” rispetto a tale problematica. Infatti, per quanto riguarda i colloqui visivi, se l’O.P. Prevede 6 ore mensili, a Padova si va oltre e vengono aumentati (compatibilmente con gli spazi) su richiesta dei detenuti e/o dei familiari, oltretutto con la possibilità di essere prenotati attraverso una telefonata o via mail per ridurre i tempi di attesa. Oltre a ciò, vengono incrementati anche i colloqui effettuati con terze persone, poiché anch’esse risultano di grande importanza per il reinserimento sociale del ristretto, amici e persone care, per far si che non si rompa il collegamento con il territorio e mantenere i legami creati. Vengono autorizzati anche i colloqui domenicali, della durata di 4/5 ore, nelle quali si può anche pranzare con i famigliari. A Padova si è soliti festeggiare anche la festa del papà per qualche ora.
Per i colloqui con i figli minori, in particolare per facilitare i rapporti con i più piccoli e garantire un minimo comfort, all’interno delle sale colloqui vi sono distributori di bevande e snack e l’importantissima presenza di operatori di Telefono Azzurro che intrattengono i figli per permettere ai coniugi di svolgere il colloquio liberamente, oppure scegliendo di stare tutti insieme nella ludoteca ed effettuare i colloqui in questo ambiente, decisamente più accogliente per il minore.
Per quanto concerne il numero di telefonate previste dalla legge in materia, alle 4 telefonate previste nel mese (una a settimana della durata di 10 minuti) ne vengono aggiunte due al mese che il detenuto può scegliere di effettuarle quando meglio crede.
Un’altra prassi assolutamente importante attuata presso il carcere padovano è la possibilità di utilizzare Skype il martedì (giorno esente dai colloqui visivi) per collegamenti della durata di 10/20 minuti con i famigliari, oltre a quelli telefonici tradizionali.
Intervenendo a sua volta, Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti, sottolinea come le proposte realizzate a Padova siano possibili e fattibili in ogni carcere, ma purtroppo questo non avviene
È il momento per certi versi più atteso, quello delle testimonianze di due persone detenute che testimoniano sull’importanza di aumentare lo spazio di umanità per consolidare i legami affettivi. Il primo detenuto riferisce di come, per via dell’impossibilità di mantenere con continuità e degnamente i rapporti famigliari, sia rimasto.
La testimonianza del secondo detenuto invece spiega come anche la famiglia sia vittima della reclusione del soggetto e di come, una volta reintrodotti in società anche se soltanto per un permesso, per il detenuto/ex detenuto ci sia bisogno di reinventarsi un ruolo. Lui stesso utilizza paragona il detenuto ad un malato al quale non venga riferita la realtà dei fatti per evitare che si appesantisca la sua situazione. Si evitano così i problemi al malato, ed il malato evita di raccontare le sue malattie.
Tra gli interventi previsti nella mattinata vi è quello del professor Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale, il quale affronta la questione della “Castrazione della sessualità del detenuto come problema di legalità costituzionale”. Il docente, riprendendo un seminario del 2000 su questi temi, sostiene come vi sia uno stretto legame tra lo spazio carcerario e la dimensione affettiva del detenuto. Per lo stesso, i due elementi sono collegati dalla ristrettezza, da una parte degli spazi fruibili, determinata dalla detenzione, dall’altra limita l’identità del detenuto che viene spinto in una dimensione infantile. “In spazi ristretti il corpo rimpicciolisce e i gli uomini rinchiusi ritornano bambini. Come i bambini, infatti, hanno una limitata libertà d’azione, sono sorvegliati a vista e perdono la propria autodeterminazione”.
Il processo di regressione trova una somatizzazione nella negazione della sfera affettiva e sessuale che per l’adulto risulta essenziale. Secondo il professor Pugiotto la “castrazione di fatto” equivale ad una pena accessoria che si aggiunge alla pena muraria. Un detenuto, infatti, per poter usufruire di spazi di intimità deve aspettare, quando possibile, l’approvazione di un permesso premiale. Questo non vale per coloro che sono ancora in attesa di giudizio e in taluni casi nemmeno per chi è già giudicato. Pugiotto si appella quindi ai dettati costituzionali che non vengono rispettati non permettendo la sessualità e l’affettività in carcere, come l’articolo 27 inerente la finalità educativa della pena e l’articolo 32 rispettivo della salute intesa non come mancanza di malattia ma come stato di benessere psico-fisico.
Al termine dell’intervento del Professore, è la volta di Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo, che racconta delle telefonate, di come avvengono e di quanto racconta ai nipotini, cercando di non far passare loro un messaggio contro le istituzioni. “Melo” ricorda poi quanto detto da Papa Francesco sulla pena di morte e sul miglioramento delle condizioni carcerarie e sull’ergastolo: “ Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. Nel codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. È una pena di morte nascosta”.
Musumeci annuncia poi la sua possibile partecipazione ad una visita, insieme alla Comunità Papa Giovanni XXIII, convocata a colloquio da Papa Francesco.
Seguono le testimonianze di quattro giovani donne, figlie di genitori ristretti.
La prima racconta, con forte coinvolgimento emotivo, di come ha iniziato il percorso tra le carceri italiane all’età di sei anni e delle difficoltà collegate: le perquisizioni, la mancanza di un genitore nella crescita e nell’età adulta, difficoltà durante i colloqui per via del vetro divisorio, la difficoltà a raccontare la detenzione dl padre. Quest’ultima ha deciso di tenerla nascosta a lungo per paura di essere emarginata dalla rete amicale e “finire nell’ombra”, fino a quando ha trovato il coraggio ed iniziato pian piano, a cominciare dal fidanzato, a spiegare la sua storia reale. Nonostante la detenzione del padre, non ha mai smesso di sentire il bisogno di alimentare il rapporto con lui.
La seconda figlia che dà voce al suo vissuto è entrata in carcere ai colloqui all’età di 14 anni. Anch’essa si lascia andare ad un momento di commozione che coinvolge tutta la sala.raccontando di come, al momento dell’arresto, inizia l’incubo dei perché da parte della comunità e delle sue conoscenze. Delle difficoltà ad accettare la realtà, “ti metti in croce”, ma di come, nonostante ciò, l’amore prevalga su tutto e sia “l’unica campana di vetro che possa proteggerti”.
La terza figlia ha iniziato il percorso recentemente, quando era già maggiorenne, e spiega come la difficoltà maggiore sia stata infondere sicurezza ai suoi genitori, entrambi detenuti, riguardo al fatto che lei stesse bene.
La quarta testimonianza è fornita dalla figlia di Carmelo Musumeci, la quale ha cercato fin’ora di far vivere alcuni momenti della propria vita al padre, attraverso telefonate in compagnia, lettere e cartoline con le destinazioni di ogni suo viaggio.
Si torna poi agli interventi “tecnici” con lo psichiatra Diego De Leo , pofessore ordinario di Psichiatria alla Griffith University, Australia. De Leo, uno dei maggiori esperti internazionali di suicidio, nonché direttore dell’”Australian Institute for suicide research and prevention”, ha affrontato il tema dei suicidi in carcere e della prevenzione attraverso l’affettività partendo dalla seguente domanda: “la possibilità di mantenere rapporti più umani con le famiglie per le persone detenute potrebbe costituire una forma di prevenzione dei suicidi?”
Prevenire il suicidio è molto difficile poiché non è una malattia che può essere diagnosticata. Dal punto di vista dell’osservazione psichiatrica, il carcere dovrebbe avere un elemento di facilitazione intrinseco, ovvero la continuità di osservazione per via della detenzione.
Oltre a ciò, il professir De Leo ha raccontato di come in carcere, al di là della tendenza al suicidio, vi sia anche il fattore di contagio: l’influenza psicologica è come un’infezione contagiosa.
De Leo si è domandato, infine, come si potrebbero creare elementi di protezione al suicidio. Sicuramente, è la sua risposta, l’aumento della somministrazione di antidepressivi non diminuisce il tasso dei suicidi e non li previene.
L’isolamento e la mancanza di relazioni portano ad un innalzamento dei suicidi: avere delle relazioni, secondo De Leo, fa la differenza, migliora le comunicazioni e l’opportunità di essere compresi emozionalmente anche e soprattutto in carcere. E questo determina “la protezione del suicidio”. La possibilità di mantenere i rapporti più umani con la famiglia per le persone detenute potrebbe consentire una forma di prevenzione dei suicidi.
A seguito dell’intervento dello psichiatra tocca ai politici presenti: Alessandro Zan deputato di Libertà e diritti, Sergio Lo Giudice senatore del PD e Gessica Rostellato del Movimento 5 Stelle. Tutti e tre spiegano le rispettive proposte di legge inerenti il tema dell’affettività e del loro impegno a portarle avanti.
L’introduzione dell’intervento di Zan parte dalla citazione di W. Churchill ovvero di come “ la qualità di una democrazia si misura da quella della vita nelle sue carceri”. Le proposte che porta con sé sono: diritto all’affettività in carcere attraverso la possibilità di più permessi, di poter avere contatti fisici, affettivi e sessuali, prevedendo luoghi adeguati e privi dell’incombenza dei controlli visivi, e incremento delle telefonate e dei minuti a disposizione, ritenendo sadica la prassi attuata fino ad oggi con i 10 minuti a settimana.
Per Lo Giudice, la proposta di legge inerente l’affettività equivale alla ripresentazione della legge “Bernardini”, la quale introduce la possibilità di avere dei rapporti in ambiente riservato e la previsione di momenti di incontro più ampi (1 pomeriggio al mese). Anche questa proposta prevede un maggior numero di telefonate. Sempre Lo Giudice sottolinea, infine, come la mortificazione dell’uomo detenuto sia determinata anche dalle carenze affettive, non soltanto dal sovraffollamento.
Gessica Rastellato ricorda come, fino ad ora, in Parlamento si sia affrontata la tematica carcere soltanto riguardo alla dimensione minima prevista delle celle e non dei bisogni di affetti e della necessità di incrementare personale educativo e supporto psicologico. La proposta da lei presentate prevede un numero maggiore di spazi per poter avere e mantenere relazioni personali e più intime; la liberalizzazione delle telefonate; spazi che consentano visite della durata fino a 24 ore; maggior tutela dei bambini durante i controlli; più impegno per l’avvio di case-famiglia protette.
Prende poi la parola Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, la quale richiama a gran voce la necessità di coinvolgere e informare la società tutta, il bisogno di valorizzare le testimonianze e di coinvolgere chi è più restio a farsi complice di “cose” serie. Moro suggerisce come bisognerebbe trovare qualcuno di credibile come possibile testimonial, magari coinvolgendo le Arti, da cantanti ad attori.
Enrico Sbriglia, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto, avvia il suo apporto al seminario sostenendo la fragilità di un sistema complesso quale è il carcere, sistema di comunità che ha bisogno di continui aggiornamenti: basta poco per frantumarlo. In carcere, l’enunciazione di un diritto è il modo più facile per depennarlo: “il carcere si scrive bianco ma si legge nero, si scrive rieducazione si legge disperazione, si scrive legalità e si legge indifferenze ed abuso, o addirittura l’abuso dell’indifferenza”.
A sostegno della tutela dei diritti dei minori, Sbriglia sostiene come essi non abbiano colpa e si domanda: “possibile che serva una legge per capirlo?” Il provveditore parla di democrazia del dolore all’interno dei luoghi detentivi, nella quale tutti devono soffrire, e sostiene il rilancio di un’idea culturale laica e rispettosa della Costituzione ai politici, se si vuole veramente sicurezza, se si vuole veramente cambiare.
Riprendendo la parola, Ornella Favero si rivolge all’Amministrazione Penitenziaria, ed in particolare al Provveditore Sbriglia, affinché venga emanata una circolare che serva da adeguamento a tutti gli istituti di pena perché riescano ad apportare migliorie, come accade a Padova . Pronta la risposta di Sbriglia: le carceri rispondono in modo diverso da Padova perché le persone sono diverse. È necessario smuovere la coscienza morale.
Il seminario, dopo una breve pausa pranzo, riprende i lavori attraverso l’intervento delle Dott.ssa Annamaria Alberghetti, componente dell’Osservatorio Carcere UCPI (Unione Camere Penali Italiane), che, attraverso un filmato, mostra le condizioni detentive in due carceri del Brasile, ove, nonostante gli spazi non proprio accoglienti, è comunque previsto e favorito un momento di intimità. Emerge il rispetto della sessualità quando i detenuti si appartano nelle celle.
Alla “Cadeia Pública de Salvador”, le sale colloquio presenti non vengono utilizzate poiché vengono prediletti gli spazi della socialità.
Vi è la testimonianza della moglie di un detenuto, la quale ha scritto un articolo provando a pensare come se tutte le limitazioni relative agli affetti non ci fossero più.
Prende parola Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e consigliere del ministeso di Giustizia, il quale sottolinea come, su 47 paesi del Consiglio d’Europa, soltanto 11 di questi prevedono visite all’interno di carceri prive di supervisione.
Cita alcuni elementi delle Regole Penitenziarie Europee, tra cui come
le situazioni di detenzione non devono portare pregiudizio alla dignità umana nel presente ne devono essere tali da poter evolvere in situazioni contrarie alla dignità umana; le restrizioni imposte alle persone detenute devono avere un criterio di proporzionalità rispetto agli obiettivi legittimi e non essere sproporzionate ad essi; ultimo elemento citato sostiene come la vita in carcere debba essere il più vicino possibile alla vita fuori dal carcere.
Palma continua e sottolinea come la pena detentiva è quella della privazione della libertà. Ogni altra restrizione è una pena ulteriore. “Le restrizioni dei diritti non devono essere tali da far perdere il contenuto del diritto stesso”.
Lo stesso individua dei punti problematici da sottoporre ad analisi della Corte Europea:
– le pene non possono diventare pene corporali, legati al corpo e alla psiche: la situazione di astensione sessuale e ristrezione affettiva può essere dannosa?
– la privazione di un soggetto di poter generare di far parte del percorso educativo dei figli lede il diritto del coniuge.
– proporzionalità, deve misurarsi in base a ciò che l’ordinamento giuridico vuole tutelare: è proporzionata la tutela di un bene (affettivo in questo caso) vietandolo in senso complessivo e indiscrimanto a tutti i detenuti?
Favero suggerisce la riunione degli stati generali della pena, invitandoli ad effettuarla pressp il carcere Due Palazzi, con la presenza di detenuti e di operatori che vivono le problematiche quotidianamente.
È il tempo della testimonianza di un detenuto il quale è uscito da poco dal regime di 41bis. Da alcuni giorni spiega, si vocifera rispetto allo smantellamento della senzione di alta sicurezza del carcere di Padova con la conseguente deportazione in altro istituto e l’allontanamento ulteriore dai propri cari.
In seguito vi è la testimonianza di un altro detenuto che “ha cresciuto i propri figli per telefono e tramite lettere” a causa della distanza. Denuncia come i 10 minuti di telefonata alla settimana non sono sufficienti, non bastano per parlare con figli e genitori. “I miei figli sanno che sono loro padre soltanto perchè portano il mio cognome”.
Emerge la necessità e l’appello al diritto alla regionalizzazione della pena e alla non deportazione in luoghi lontani ed irraggiungibili.
Desi Bruno, garante dei detenuti dell’Emilia Romagna denuncia la non apertura delle Icam prevista per il primo gennaio del 2014. Si appella come Ornellla Favero all’indispensabilità di utilizzare le circolari del DAP affinché vengano attuati i miglioramenti apportati in alcuni istituti come Padova, affinché vengano favorite più telefonate e di durata maggiore.
La Bruno suggerisce di provare a partire dai famigliari per provare a smuovere la coscienza pubblica e ricorda come “vedere i figli non è un premio ma un diritto”.
Siamo quasi al termine del seminario ma non può concludersi senza l’apporto fornito da Lia Sacerdote, responsabile dell’associazione Bambini Senza Sbarre, la quale porta il punto di vista dei bambini sostenendo come questo sia radicale per il carcere poichè i bambini possono cambiare le cose, tutelando i loro diritti inalienabili.
In conclusione interviene Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani la quale sviluppa un discorso che va a toccare diverse problematiche carcerarie. Soffermandomi in particolare su quelle inerenti l’affettività, la Bernardini sostiene l’innocenza dei bambini e di come, nonostante ciò, gli stessi subiscano un torto ed una violazione dei loro diritti. Bisogna assolutamente pensare alle conseguenze del distacco prolungato sui minori.
Gli ultimi brevi interventi sono del frate minore francescano Beppe Prioli, a sostegno del diritto a vedere i famigliari e di Maurizio Mazzi della Conferenza regionale Volontariato e Giustizia del Veneto il quale sostiene l’importanza di questa campagna.
Il seminario si conclude avviando una lotta di impegno continuativa e dunque affermando come il seminario tenutosi faccia da avvio ad una campagna sentita e voluta.
Dalla pagina facebook di Ristretti Orizzonti appare tra le note la seguente riflessione: “Negare l’affettività in carcere significa dare al detenuto una pena accessoria ingiustificata e colpire la sua famiglia, trasformandola in una vittima”.
Per concludere questo elaborato allego nella pagina seguento il riassunto della redazione di Ristretti Orizzoniti, inerente le proposte presentate per l’umanizzazione delle carceri.
Il seminario, attraverso l’intervento di ogni soggetto legato per diverse ragioni all’ambiente carcerario, ha ricoperto i partecipanti con un’ondata di speranza e buoni propositi per la lotta alla tutela dei diritti e dell’affettività.
Manifesto con alcune proposte concrete per rendere il carcere “più umano”
- “Liberalizzare” le telefonate per tutti i detenuti, a telefoni fissi o cellulari, introducendo il sistema della scheda telefonica, che consente un’enorme riduzione della burocrazia rispetto alle “domandine” scritte. Telefonare più liberamente ai propri cari potrebbe costituire un argine all’aggressività determinata dalle condizioni di detenzione e una forma di prevenzione dei suicidi.
- Consentire i colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, da trascorrere con la famiglia senza il controllo visivo. Consentire inoltre che i colloqui siano cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi.
- Aumentare le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, a dodici ore mensili, per rinsaldare le relazioni, che sono alla base del reinserimento nella società.
- Aggiungere agli attuali 45 giorni di permessi premio alcuni giorni nell’arco dell’anno da trascorrere con la famiglia.
Nell’attesa dell’approvazione di queste riforme dal convegno di Ristretti Orizzonti sono state avanzate anche una serie di proposte che potrebbero essere attuate subito, con una semplice circolare dell’Amministrazione penitenziaria, senza neppure cambiare una legge:
- dare la possibilità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese alcuni colloqui “lunghi” con la possibilità di pranzare con i propri cari;
- due telefonate in più al mese per tutti i detenuti;
- l’allestimento di postazioni per permettere ai detenuti, in particolare quelli che hanno famiglie lontane, di fare colloqui visivi via Skype con i loro familiari;
- migliorare i locali adibiti ai colloqui, e all’attesa dei colloqui, con una attenzione maggiore per le esigenze di anziani e bambini (servirebbero in tutte le carceri pensiline, strutture provviste di servizi igienici, spazi per i bambini);
- maggiore trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo e rispettare i principi della vicinanza alle famiglie e della possibilità di costruire reali percorsi di reinserimento sul territorio.